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L’ACQUA, UN BENE PREZIOSO DA SALVAGUARDARE

IL TEMA DELL’ACQUA AL CENTRO DI UN’UNITA’ DI APPRENDIMENTO CHE HA COINVOLTO ALCUNE CLASSI PRIME DEL NOSTRO LICEO

In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua del 22 marzo 2019, il nostro liceo ha organizzato un incontro a conclusione delle attività didattiche svolte da diverse classi prime (1ASc-1Bsc-1BLi-1CLi-1DLi). L’incontro è iniziato con la visione di uno spettacolo teatrale in DVD, ‘H2ORO’ incentrato sul mondo e l’acqua come bene che deve restare pubblico.

 

L’attore ha parlato di tutte le minacce che incombono sull’acqua in Italia per poi focalizzarsi sul resto del mondo: le multinazionali, gli sprechi, la privatizzazione che sono alcuni dei maggiori problemi che causano la riduzione della disponibilità e l’inquinamento idrico. Successivamente, gli studenti di alcune classi hanno esposto i loro lavori di approfondimento sull’acqua trattando tematiche e aspetti diversi.

Si è partiti dal legame dell’acqua con la mitologia greca; in seguito  sotto diverse forme sono stati condivisi gli aspetti legati all’inquinamento idrico, come i danni provenienti dall’agricoltura, dall’allevamento e dalle industrie. Si è affrontato anche il fatto che l’acqua può essere motivo di scontri, come dimostrano le terribili “water wars” già in atto, e che la disponibilità sia ulteriormente  minacciata dai cambiamenti climatici. Ma cosa possiamo fare noi?

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A  questa domanda un allievo ha dato alcuni suggerimenti pratici per contribuire al risparmio idrico che ciascuno di noi senza troppa fatica può far propri. Oltre a questa iniziativa, sono stati preparati dei cartelloni con messaggi vari sotto forma di slogan, immagini, pensieri che convergono tutti sul nostro senso di responsabilità nei confronti del futuro.

Lucrezia Venturi (1CLi)

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LA MAFIA NON E’ UN FENOMENO DEL SUD, MA ITALIANO: CONOSCERE VUOL DIRE COLMARE LA DIFFERENZA TRA PERCEZIONE E REALTA’

L’ex presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi incontra gli studenti del nostro liceo

 

A pochi giorni dallo spettacolo musicale La mafia non esiste andato in scena al Teatro Portone, Senigallia torna a dedicare ampio spazio alla lotta alla criminalità organizzata. Tra le protagoniste della scena politica degli ultimi anni, Rosy Bindi ha incontrato gli studenti del Liceo Enrico Medi nella mattinata di lunedì, dando rilievo alla sua esperienza da ex presidente della commissione parlamentare antimafia e portando la testimonianza anche di quello che dal 2016 è il progetto di Liberaidee: promuovere la responsabilità contro le mafie e la corruzione, attraverso una rete di associazioni, cooperative sociali, movimenti e gruppi, scuole, sindacati, diocesi e parrocchie. <<Un impegno che nella nostra città avrà formalmente luogo il 21 marzo, grazie alla giornata della memoria in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata da Liberaidee, ma che deve rinnovarsi ogni giorno>> ha ricordato Don Paolo Gasperini, vicario episcopale per la Pastorale di Senigallia.

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Negli ultimi due anni, Liberaidee ha condotto un’indagine sul territorio nazionale per conoscere il livello di percezione dei fenomeni illegali -quali i movimenti mafiosi- e poterli confrontare con la realtà effettiva. La ricerca si è specializzata anche a livello regionale, e dai dati emersi risulta che nella regione Marche la maggioranza degli intervistati riconosce le mafie come un fenomeno globale, che però non mette a rischio l’incolumità del nostro territorio. <<Un dato ambiguo, se ripensiamo allo scorso 25 dicembre, quando venne ucciso il fratello di un pentito della ‘Ndrangheta proprio a Pesaro>> – ha continuato Don Paolo.

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I due impegni principali che Libera, attraverso la sua rete di collaboratori, si propone di portare a termine, sono l’approvazione della legge sulla legalità finanziata e la creazione di un’effettiva amministrazione trasparente, che possa aiutare i cittadini a monitorare costantemente, anche attraverso siti web, il percorso delle associazioni.
<<Conoscere vuol dire colmare la differenza tra la percezione e la realtà>> – è intervenuta Rosy Bindi- <<Per questa ragione sarebbe necessario sfruttare momenti di dialogo come questi, in cui si riuniscono associazioni, scuole, studenti e professori, per gettare luce su un problema così serio. Queste occasioni preziose dovrebbero rientrare nel curriculum ordinario di ogni studente, che è a suo modo responsabile di rappresentare, un giorno, la futura classe dirigente.>>
Ciò che è certo è che di mafia si sente parlare da anni ed anni. O meglio, secoli. Perché il fenomeno è un dato strutturale presente anche nella fase pre-unitaria italiana. Nomi come Camorra, ‘Ndrangheta, Mafia, Cosa Nostra (per non parlare delle mafie più recenti, come quella foggiana e la Mafia Capitale) ce li sentiamo cuciti addosso: essere italiani, nel mondo, vuol dire fare i conti anche con queste organizzazioni criminali e i loro elementi inquinanti e condizionanti per lo sviluppo, l’economia e la crescita del paese.

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La storia italiana è stata sempre condizionata dalle mafie, sin dal 1800. L’operare di simili criminalità organizzate convisse (e continua a convivere ancora oggi) con la <<questione del Sud>>>. Se il meridione è stato facile preda delle mafie è certamente per il suo territorio ancora fragile, arretrato, che ha fatto sempre fatica ad inserirsi nel panorama di un’unità nazionale e a sentirsi parte di uno stato <<crudele>> che reprimeva ferocemente il brigantaggio e che costringeva i giovani a prendere parte al servizio di leva. Eppure al Sud non servono colonizzatori nordici, ma una classe dirigente del mezzogiorno con la <<schiena dritta>>.
<<Quello che si rischia è un atteggiamento giustificatorio>> – ha continuato la Bindi- <<La mafia non risolve i problemi del Sud, laddove lo stato risulti assente, ma è la causa dei suoi problemi più grandi. Coloro che hanno realmente provato a rivalorizzare il Sud per riscattarlo sono stati uccisi. Perché la mafia è e resterà sempre contro il progresso.>>

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Il successo delle mafie meridionali nasce dalla loro capacità di tenere le comunità soggiogate e di cercare in esse una larga fetta di consenso: i criminali vengono riconosciuti come uomini d’onore e protetti dal loro ambiente, perché si inseriscono laddove l’intervento della legalità -e quindi dello stato- appare assente. Cercano innanzitutto relazioni e complicità, convincendo i politici che perseguiranno e raggiungeranno i loro interessi politici attraverso un subdolo scambio di alleanze –come è successo recentemente ad un sindaco del Veneto, incarcerato per uno scambio di voto con la camorra-, offrendo prestiti ad imprenditori sulla via del fallimento (denaro ricavato sempre dal traffico illegale di droga), perché la mafia <<ti serve oggi per essere servita domani>>. E’ proprio quando si rompono questi accordi tra debitore e creditore che entrano in gioco i metodi intimidatori e la violenza. O quando qualcuno, subito assurto ad eroe, osa sfidare le organizzazioni. E’ il caso del Procuratore Caccia, ucciso dalla ‘ndrangheta nel 1983, di Don Puglisi, che educava i ragazzi per sottrarli alle mani della malavita e che per questa ragione venne assassinato da Cosa Nostra nel 1993, o di Don Diana, vittima della Camorra per essersi rifiutato di distribuire la Comunione a un membro del cosiddetto <<Sistema>>. E come loro sono tanti i nomi, alcuni più noti, tra cui Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, altri che invece possono sfuggire, come Libero Grassi, Beppe Alfano, Pippo Fava. Molte delle vittime e delle figure che tutt’oggi sono a rischio (si pensi a Roberto Saviano, Paolo Borrometi e Federica Angeli) erano o sono giornalisti, testimoni costanti di atti intimidatori e minacce nei confronti della loro persona. La loro unica colpa: svolgere il proprio lavoro diffondendo la verità.

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Se le mafie sono una piaga globale, l’Italia è  forse l’unico paese che ha gli strumenti necessari per combatterla. Negli Anni Novanta, dopo gli anni delle stragi fasciste, delle eversioni di destra (il cosiddetto <<terrorismo nero>>) e degli attentati perpetuati dalle Brigate Rosse, l’Italia seppe risollevarsi con una reazione fortissima: fu la nostra coscienza civile ad istituire marce e giornate della memoria per ricordare le vittime della malavita. Il nostro paese ha avuto il coraggio di scrutare questo abisso per carpire –e capire- le dinamiche di simili organizzazioni criminali, come disse Falcone. Ma se siamo riusciti a sconfiggerle è perché sono <<uscite dal nascondiglio>>. Alla notizia della morte di Totò Riina, gli stessi mafiosi a lui storicamente affiliati hanno brindato: non solo perché consapevoli che la loro vita è stata profondamente distrutta da una tale alleanza, ma perché ora, grazie a quel nome fisicamente cancellato, possono tornare a nascondersi. E’ proprio questo il punto di forza delle mafie, grazie al quale riescono ancora oggi a sfuggire alle mani delle forze dell’ordine italiane: l’abilità di intessere relazioni pericolose agendo in incognito. I massimi esponenti della ‘Ndrangheta vengono chiamati <<uomini buoni>> dalle comunità, perché, nel loro essere perfettamente integrati nella società, a cui elargiscono servizi e favori, non possono che essere insospettabili. Poi capita che una famiglia malavitosa del Sud decida di fare fortuna al Nord, in un terreno dall’economia fertile, che promette ingenti guadagni. E il fenomeno, spostandosi, emigra nel Settentrione, magari anche a Brescello, piccolissimo comune della provincia di Reggio-Emilia famoso per essere stato set cinematografico dei film di don Camillo e Peppone, dove nessuno credeva potesse esserci un covo della ‘Ndrangheta, perché quegli <<uomini buoni>> concludevano appalti e avevano mogli modello che facevano pulizie nelle case dei vicini.

Alexandra Bastari, 5ALi

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DIRITTI UMANI, UNA CONQUISTA DA DIFENDERE

 

IL NOSTRO LICEO DEDICA UNA MATTINATA ALLA RIFLESSIONE SUL TEMA ANIMATA DAGLI STUDENTI

A 70 anni dalla promulgazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sabato 9 febbraio gli studenti che hanno intrapreso percorsi di discussione e di riflessione sui“Diritti Umani” si sono ritrovati in Aula Magna per condividere i risultati di questa esperienza. Alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stato dedicato un video realizzato da studenti e docenti con l’ideazione della prof.ssa Donatella Discepoli e la coreografia di Francesca Berardi.

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Dopo la lettura dei trenta articoli che la compongono, si è poi discusso dell’attualità della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nella cornice dell’Agenda2030, un programma d’azione in cui sono indicati 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile che bisogna raggiungere entro l’anno 2030. Essa è stata sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.

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I ragazzi e le ragazze della 1BLi hanno evidenziato i punti di contatto tra l’Agenda in questione e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. La mattinata si è conclusa con l’intervento della classe 2BSc che ha proposto una riflessione su Amnesty International e sulle sue battaglie in difesa dei Diritti Umani.

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E’ stato inoltre proposto il video della classe 3 CSc che ha vinto il concorso “Pace è Volontariato”. L’iniziativa si è collocata all’interno delle celebrazione della giornata dei diritti, occasione per rafforzare la consapevolezza dell’importanza dei principi che devono essere alla base della nostra convivenza.

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Noi studenti, lavorando autonomamente, abbiamo avuto l’opportunità di approfondire i contenuti della Dichiarazione e di attualizzarla facendola dialogare con l’Agenda 2030. L’attività per noi ha rappresentato una importante esperienza di collaborazione e ci ha illuminato sulla nostra contemporaneità che ci chiama ad agire a difesa della sostenibilità e giustizia, e anche con estrema urgenza.

I ragazzi e le ragazze della 1BLi

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LA RIVOLUZIONE ANTROPOLOGICA DEL FASCISMO, RAZZISMO E ANTISEMITISMO

LO STORICO EMILIO GENTILE INCONTRA GLI STUDENTI  DI ALCUNE SCUOLE DI SENIGALLIA

Se ripensiamo al massacro della Shoah –ma in generale a tutti i massacri che ci portiamo sulla coscienza- non possiamo non immaginare l’uomo come un’impeccabile macchina dispensatrice di odio. In realtà, l’essere umano può distribuire anche amore, il sentimento più irrazionale e spontaneo per eccellenza. Ma sì, può farsi portavoce anche di un odio feroce, sentimento programmabile e spesso razionale, per mettere a punto la sua efficacia distruttiva nei confronti del nemico.
E’ la riflessione con cui ha esordito nella mattinata di sabato Emilio Gentile, tra i più illustri esperti di storia contemporanea del nostro paese, presso il Teatro La Fenice di Senigallia, davanti ad una folta platea di studenti dei licei Medi e Perticari e dell’istituto tecnico Corinaldesi, in occasione dell’evento intitolato La rivoluzione antropologica del fascismo, razzismo e antisemitismo.

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Nulla di paragonabile all’orrore nazista si è mai verificato nella storia dell’uomo: un insulso e razionale –razionalissimo- progetto di odio, germogliato per di più nel centro dell’Europa illuminista.  <<Il concetto di razza ha basi scientifiche, ma gli studi portati avanti non hanno certamente inclinazioni antisemitiche. Essi vennero solamente travisati dalle figure che ben conosciamo: Adolf Hitler e Benito Mussolini>> -ha spiegato Gentile. Nell’Ottocento, -che aveva risentito dell’influsso illuminista del secolo precedente- la teoria dell’evoluzione di Darwin constata infatti l’esistenza di innumerevoli specie viventi in lotta per la sopravvivenza. Solo una, per una speciale adattabilità a clima e ambiente, è stata però in grado di sopravvivere: la razza umana. Quella che prende però corpo nel Novecento è l’idea di un’identità dovuta alla composizione del sangue, portata avanti dall’erronea convinzione che la scienza giustifichi una gerarchia tra le razze, e che quella umana possa essere suddivisa in sottocategorie: l’uomo bianco, l’uomo nero, l’uomo giallo, l’uomo rosso. E’ il primo, quello europeo, che aveva dominato fino ad allora l’85% delle terre emerse, che risponde al modello estetico neoclassico: fisici scolpiti come la statuaria greca, culmine dell’armonia e della perfezione indissolubilmente legata alla bellezza interiore (kalòs kai agathòs), capelli biondi e occhi azzurri.  <<L’antisemitismo politico si manifestò come una religiosità pagana a cui gli stati, poco a poco, si convertirono>> – ha continuato lo storico. Non possiamo non portare a questo proposito l’esempio dell’Italia.

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Nonostante l’antigiudaismo cattolico (gli ebrei, per la Chiesa, avevano ucciso Cristo) e benché diffusa l’opinione popolare del giudeo usuraio, nei primi decenni del Novecento non sono presenti forme di odio sistematico o il pensiero che dopo secoli di diaspora la componente ebrea italiana debba cercare una patria altrove. D’altronde, gli stessi ebrei erano stati protagonisti del nostro Risorgimento (Ernesto Nathan, Sidney Sonnino sono solamente due dei loro nomi), e lo Statuto Albertino del 1848 aveva eliminato ogni forma di discriminazione possibile.

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Allora perché l’Italia si fece coinvolgere nel massacro? Dobbiamo a questo punto parlare di compartecipazione: Mussolini era stato certamente condizionato dall’alleanza con la Germania, ma aveva stilato le legislazioni antisemite in maniera autografa e cosciente, nonostante nella sua vita avesse avuto diverse amanti ebree, tra cui l’attivista e politica russa Angelica Balabanoff e la storica dell’arte Margherita Sarfatti, che gli inculcò il culto della romanità. Negli Anni Venti Mussolini si fa <<seminatore>> di una nuova razza, padre di tutte le infanzie, il <<capo deciso>> di un’Italia forte, mitica, imperiale, proprio come la Roma di Augusto. Nel 1926 dichiara di voler operare una trasformazione del carattere interiore degli italiani, correggerli da <<qualcuno dei loro difetti tradizionali>>, ossia dalle manchevolezze impresse nel loro animo corrotto dalle vicissitudini del loro passato e della loro storia, fatta, dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente in poi, di servilità e di dominio straniero. Molto prima della degenerazione del fascismo è quindi già radicata l’idea di una <<rigenerazione>>, della creazione di una razza nuova di guerrieri dominatori, dove vengono meno le attitudini personali per lasciare spazio a un modello da seguire: quello del cittadino-soldato imbottito dal culto della guerra. Anche le donne diventano <<donne-coloniali>> che devono assimilare lo spirito guerriero da trasmettere ai propri figli (i quali non faranno in tempo neppure a nascere che già saranno tesserati al partito fascista).

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Fino ad allora l’Italia aveva conquistato l’Eritrea, parte della Somalia e poi la Libia, ma il <<meticciato>> non era mai stato un problema (anzi, più che la componente erotica delle relazioni, veniva sottolineata quella sentimentale). Neanche con Faccetta Nera, brano composto in occasione dell’invasione dell’Abissinia (Etiopia) ed erroneamente considerato l’inno degli orrori fascisti, il nostro Paese aveva avuto intenzioni di dominio spietato e incontrollato.  La diffusione dell’odio razziale fu quindi un processo graduale che andò manifestandosi attraverso un atteggiamento di diffidenza: tra la razza conquistatrice e quella conquistata bisognava mantenere una rigorosa separazione. Iniziano ad apparire i primi squallidi simbolismi razzisti nelle cartoline coloniali: soldati che comprano schiave nere per appagare appetiti sessuali o intere popolazioni soffocate con l’impiego di gas chimici.  E’ il volto più <<animalizzato>> del razzismo novecentesco, rafforzato, nel cuore dell’Europa, in Germania, dalla potenza dei discorsi di Adolf Hitler: gli ebrei, il grande nemico dell’umanità, dipinti come insetti nocivi, ragni velenosi, corruttori di donne caste, che avevano però contribuito allo sviluppo della cultura tedesca (tra cui lo scrittore ebreo Heinrich Heine). Di riflesso, il nemico viene ufficializzato anche in Italia: ne Il Manifesto della razza, pubblicato nel luglio 1938, il punto 9 recita: <<Gli ebrei non appartengono alla razza italiana>>. Nelle scuole migliaia di cattedre e di banchi rimangono improvvisamente vuoti: professori e studenti spariscono per scappare da quelle immagini e caricature intrise di odio immeritato.

 

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<<Se fossimo ciechi e sordi non percepiremmo le caratteristiche fisiche che ci differenziano per trasformarle in distinzioni qualitative di fondo>> -ha proseguito Gentile- <<Se tu non conosci il razzismo, ma vedi queste immagini, dove c’è la perfezione europea con il suo armonioso profilo greco-romano, e poi accanto l’ebreo e poi ancora lo stereotipo del nero assimilato ad una scimmia, tutto cambia. Le immagini sono pericolose perché il razzismo nasce attraverso le immagini.>>

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Ma non fu una perversione solamente tedesca e italiana. Anche la Francia –la stessa società libera e repubblicana che aveva redatto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nel 1789 come eccelso punto fermo nel corso del ventennio rivoluzionario- era abbagliata dallo stereotipo dell’ebreo deformato che non ha patria né nazione, quindi pronto a tradire senza scrupoli pur di avere un proprio <<habitat>> (l’unica colpa di Alfred Dreyfus, militare francese condannato per presunto tradimento, era quella di essere ebreo).

Ma di questi peccati si macchiò anche il comunismo (che potrebbe gareggiare senza timori con il nazismo per il numero di vittime causate, ndr): Marx utilizzava la parola ebreo come insulto e le persecuzioni antisemite in Russia erano iniziate già dal 1905. Ma tutte queste distinzioni tra destra, sinistra, nazismo, fascismo e comunismo sono forse superflue: ogni corrente di pensiero politico, ogni partito, uno ad uno, sembrò unirsi ad un altro in un gomitolo inestricabile per cadere nella logica delle leghe antisemite.
<<I regimi totalitari abituano il popolo all’indifferenza>> -ha concluso Gentile- <<Il passato quello che poteva fare di male lo ha già fatto. Il presente lo viviamo e il futuro non lo conosciamo. Ma per cambiare la storia dovremmo rinnovare una speranza: l’uomo non è geneticamente portato solo all’odio, ma anche all’amore.>>

Alexandra Bastari, 5ALi

 

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I DIRITTI UMANI OGGI, LUCI ED OMBRE

IL PROFESSOR DI COSIMO OSPITE AL LICEO MEDI IN OCCASIONE DEI SETTANT’ANNI DELLA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO

<<Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.>> Oggi più che mai torna a far riflettere il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, firmata dall’Assemblea Generale dell’ONU ben settant’anni fa, il 10 dicembre 1948 a Parigi. A spiegare l’influenza che questo documento ha ancora, dopo ottant’anni dall’applicazione delle leggi razziali, è stato Giovanni Di Cosimo, professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Macerata, nella mattinata di martedì scorso presso l’Aula Magna del nostro liceo in occasione di un ciclo di conferenze intitolato I Diritti Umani oggi: luci ed ombre.
<<Una precisazione è d’obbligo>>- ha esordito il professore- <<Il diritto costituzionale ha a che fare con i diritti umani. È fondamentale nella nostra società e nella vita quotidiana, dove anche un contratto di compravenduta diventa uno scambio giuridico con le sue norme e le sue regole inviolabili.>>

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Ma perché dal 1948 siamo chiamati ad interiorizzare una serie di principi e di valori cardine che ci facciano da guida, ai quali siamo legati da un sentimento di responsabilizzazione? Perché all’affermazione dei diritti umani (termine con cui si esprime una dimensione internazionale, che trascende la divisione territoriale nazionale), dei diritti fondamentali (interni ad un Paese) e all’approvazione delle costituzioni nazionali si è giunti grazie ad un <<sentimento di dovere soprattutto occidentale>>, come lo ha definito Di Cosimo.

Il percorso è senza dubbio lungo e pieno di intralci e ha legami inscindibili con la storia: comincia infatti il 15 giugno 1215, quando il re inglese Giovanni Senzaterra è costretto ad accettare e a sottoscrivere a Runnymede, nei pressi di Windsor, la Magna Charta Libertatum, cedendo alle richieste di un gruppo di baroni insofferenti alla corona. Il documento –oggi conservato alla British Library di Londra in quattro copie originali- garantì da quel momento in poi la tutela dei diritti della chiesa, la protezione ai baroni dalla detenzione illegale e la limitazione sulle tasse feudali alla corona, in un’epoca in cui il sovrano era dichiarato esente da quell’insieme di regole e norme imposte ai propri sudditi.
Il secondo passaggio avviene invece alla fine del Settecento, in un clima generalmente positivo che vede una crescita demografica e lo sviluppo della produzione agricola, dell’industria e dei traffici commerciali. Due grandi eventi sconvolgono gli equilibri internazionali: la Rivoluzione Americana (1775 – 1783) e la Rivoluzione Francese (1789 – 1799). La prima –che sancisce la nascita degli odierni Stati Uniti nel 1776 con la Dichiarazione d’Indipendenza Americana– ha indiscutibilmente un obiettivo polemico: le 13 colonie britanniche dell’America Settentrionale si oppongono alla madrepatria per aver introdotto nuove tasse senza consultare le assemblee locali. Non si tratta solamente di asprezza delle politiche fiscali: la ribellione delle colonie ci insegna, ancora oggi, che la legge non è infallibile e, se pericolosa e ingiusta, può essere contestata in nome di un valore più alto: dei diritti che non possono essere violati da nessun potere politico. La seconda rivoluzione –decisamente ben più nota nel nostro quadro europeo- tramanda invece un principio quasi opposto: la legge, nel suo essere espressione suprema della volontà generale, è intoccabile. Dal 1789 in Francia il tentativo di realizzare ideali dell’Illuminismo come la sovranità popolare e i diritti inalienabili portò alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, elaborata nello stesso anno. Gli articoli numero 1 (<<Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune>>) e numero 16 (<<Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione>>) sanciscono l’importanza della tutela dell’uguaglianza sociale e della separazione dei poteri come testimonianza di un’effettiva organizzazione dell’ordine pubblico, magistralmente garantito dall’esistenza della costituzione, la <<madre>> di tutte le leggi e l’apogeo della democrazia e dell’unione nazionale.

E’ proprio nel Novecento che, però, nascono o si rinnovano la maggior parte delle costituzioni europee, in seguito all’esperienza tragica della Seconda Guerra Mondiale. In Italia, la risposta alla dittatura fascista arriva il 2 giugno 1946 quando, attraverso un referendum, i cittadini (e ora anche le cittadine!) italiani eleggono l’Assemblea che redigerà la nuova costituzione, in vigore dal 1 gennaio 1948. Tra i 139 articoli, il numero 49 si propone di scongiurare l’eventualità che i diritti politici dei cittadini vengano calpestati, come avvenne invece con la Legge Acerbo del 1923, un meccanismo elettorale profondamente squilibrato con il quale Mussolini assicurò al proprio partito una solida maggioranza parlamentare.
<<Sebbene le costituzioni abbiano inaugurato nella storia dell’uomo un periodo decisamente più luminoso, non sono esenti da ombre e contraddizioni che dovrebbero allarmarci>> -ha continuato il professor Di Cosimo. Un esempio dei nostri giorni: la Francia, nel 2015, ha macchiato la sua società libera e democratica restringendo diversi diritti dei cittadini per controllare in maniera più capillare il pericoloso diffondersi del terrorismo internazionale che sta quasi paralizzando l’Europa (e non solo). Ma anche l’Italia ha le sue colpe: nel 2016 il nostro Paese è stato infatti condannato dalla Corte EDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) per la privazione della libertà personale di alcuni migranti condotti presso il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) dell’isola di Lampedusa.
Anche se in continua evoluzione, i diritti umani rimangono sacri e la loro violazione, attraverso le forme più disparate, può minacciare categorie di persone particolarmente indifese. Quindi, oggi più che mai, siamo chiamati a mantenere lo stesso senso del dovere e di responsabilità di settant’anni fa, quando, assieme ad altri 47 membri firmatari, abbiamo giurato che in nome di linee di condotta ben definite che avremmo agito <<gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza>>.

Alexandra Bastari, 5ALi

 

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“LE PAROLE PER DIRLO” MESSAGGI DI PACE PER CONTRASTARE I DISCORSI D’ODIO

In occasione dei 70 anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e a 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia, giovedì  29 s.m. nell’Aula Magna C.Urbani del liceo, i ragazzi e le ragazze delle classi 1CLi, 1DSc, 2ASc, 3BSc, 4DLi,5BLi, sono stati protagonisti del progetto “Le parole per dirlo”in collaborazione con CVM(Comunità Volontari per il Mondo).

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La classe 2ASc, tramite un video, ha voluto sottolineare l’Importanza di una comunicazione pacifica soprattutto tramite i social , che si basa sul pensare prima di agire, ascoltare gli altri e capire che la propria idea non è l’unica esistente: tutto sintetizzato dall’espressione ‘ la responsabilità nell’ uso della parola’.

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Di seguito le classi 1Cli e 1Dsc hanno illustrato i risultati del laboratorio CVM su stereotipi e pregiudizi, affrontando temi scottanti quali il sessismo , il razzismo, la discriminazione per provenienza e classi sociali.

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La 3Bsc ha ripercorso a ritroso il significato di alcune parole-chiave, scoprendone la forza positiva e costruttiva nelle relazioni umane improntate al rispetto. Altro argomento interessante, proposto dalla 4DLi, è stata la spiegazione del questionario sul cyberbullismo, tema molto discusso attualmente e sentito soprattutto per I danni sottovalutati che provoca.

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Infine la 5Bli ha mostrato il video ‘Pace è Volontariato’ e condiviso idee e riflessioni maturate durante la settimana della Pace organizzata a Perugia in ottobre. Questi contributi hanno reso la mattinata molto coinvolgente, soprattutto perché sono stati gli studenti gli attori principali, dimostrando che per abbattere i pregiudizi serve un grande impegno a cominciare dalla scuola.

Lucrezia Venturi, 1CLi

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I CREATORI DEL SORRISO

Mercoledì, 7 novembre, la classe 1^D Linguistico ha ospitato quattro volontari del CVM, la Comunità di Volontari per il Mondo con sede ad Ancona che si occupa di diritti umani e della formazione dei docenti per la loro diffusione nelle scuole. Sono venuti per parlarci dei problemi che riscontrano le popolazioni africane nel quotidiano e quindi dei progetti di cui l’organizzazione si è occupata lo scorso anno. Due di loro, rimanendo in Italia, mentre gli altri due, stabilendosi per un intero anno in Etiopia.

L’Etiopia, o Stato delle “facce bruciate” come traduce il suo nome, è il secondo paese più grande del mondo che non confina con il mare ed è situato nel Corno d’Africa. Questi ragazzi ci hanno parlato principalmente dei problemi che affrontano le popolazioni tutti i giorni, nel loro quotidiano, nel loro vivere comune. In particolare …dell’acqua. Sì, come ormai si sa e si dice l’acqua è il problema principale per le popolazioni di questi territori del mondo e che comporta tante altre conseguenze, ad esempio le guerre, o anche le contaminazioni. E questo considerando che l’Etiopia è ricca di acqua!!

Qui in Etiopia l’acqua presente è, infatti, contaminata dal fluoro, e questa contaminazione, dovuta anche alla presenza di terra, fa ammalare la pelle delle persone che la bevono. Le persone di questa associazione assieme alla popolazione hanno pensato, ad esempio, di costruire una sorta di pozzi che possano contenere l’acqua dei fiumi senza farla contaminare da agenti esterni in modo che sia loro fruibile. Le dimensioni di queste sorgenti variano a seconda del flusso d’acqua. Spesso le sorgenti non vengono costruite in ogni villaggio e quindi, donne o ragazzi, devono percorrere chilometri e chilometri per andare a prendere l’acqua in fonti non molto vicine, e con taniche che, da piene, pesano anche venti chili!!

Inoltre, c’è un altro problema che si presenta principalmente nell’Etiopia del nord (ma non soltanto lì) ed è proprio lo sfruttamento delle ragazze. Le famiglie, infatti, mandano le figlie all’età di tredici-quattordici anni in case di amici o parenti a lavorare: badare alla casa, cucinare, lavare, occuparsi dei campi ed accudire i bambini. Queste ragazze vengono mandate lì perché la famiglia non riesce più a provvedere al loro mantenimento a scuola. Così, se sono fortunate, trovano nella loro nuova sistemazione un “padrone” che diventa il loro datore di lavoro, lasciandole libere di studiare e magari, con un po’ di fortuna, dando loro qualche soldo. La maggior parte di loro, però, non viene pagata.  Infine, i ragazzi dell’associazione ci hanno spiegato che, nell’Etiopia del nord, grazie al loro intervento si sono avviati dei corsi per insegnare a queste ragazze come si cucinano i cibi, e in generale le norme igieniche che in questa parte dell’Africa erano precedentemente abbastanza sottovalutate. Partecipando a questi corsi, infatti, le ragazze avevano più possibilità di essere chiamate da un datore di lavoro, e quindi, di ricevere qualche soldo. 

Insomma…spunti veri di riflessione per capire che nel mondo odierno c’è chi “USA LE COSE ed AMA LE PERSONE” invece che l’inverso…

Benedetta Nobili, 1 D Li

 

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VOCI DI DONNE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE

LE TESTIMONIANZE DI DACIA MARAINI, DI ANNARITA CALAVALLE E DI LUCIA ANNIBALI IN OCCASIONE DELLA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Iniziamo con il mettere due punti fermi. Il primo è dopo un “no”. No, non si può più tollerare la violenza sulle donne. E poi dopo un “sì”. Sì, è indispensabile una giornata contro la violenza sulle donne che viene celebrata il 25 novembre di ogni anno. A raccontarlo sono i numeri: secondo le ultime stime Istat le donne che subiscono maltrattamenti sono circa 6,7 milioni solamente in Italia. Di queste, circa il 16% ha subito atti in grado di metterne a repentaglio la vita, percentuale che si alza al 20% se si aggiungono anche la percentuale legata allo stupro e al 31% se, a queste cifre già drammatiche, si considerano violenze fisiche come maltrattamenti che portano a lesioni fisiche gravi e gravissime (fonti Istat).

FEMMINICIDIOA ricordare questo tema toccante quanto straziante è Cronaca di un amore rubato, monologo che Federica Di Martino ha tratto da un racconto di Dacia Maraini, Cronaca di una violenza di gruppo, presente nella raccolta L’Amore rubato. In scena c’è un’“anima morta” che racconta le ferite sul corpo e nella mente riportate dopo uno stupro di gruppo. Stupro mai condannato: i colpevoli sono stati tutti assolti, malgrado i testimoni, malgrado lei abbia trovato il coraggio di denunciare i suoi aggressori: quattro liceali hanno sequestrato una ragazzina di tredici anni e hanno abusato di lei, per ore, lasciandola stordita e sanguinante.

Sulla strada provinciale la soccorre un prete che passava di lì per caso in automobile e che la porterà al pronto soccorso. Nell’interpretare il monologo, Federica Di Martino così esprime le sue considerazioni: “Dacia Maraini ci racconta la Cronaca di una violenza di gruppo facendo parlare tutti i protagonisti. […] Ma la bambina no… la bambina vive nella storia solo attraverso le parole degli altri. Questo mi ha colpito e mi ha spinto a desiderare di mettere in scena il racconto. Che vita può avere una ragazzina dopo aver subito uno stupro a 13 anni? Forse nessuna. Forse la sua anima si ferma in quel momento e in quel momento muore per sempre. […] Una ragazzina che ha perso quel giorno il suo posto nel mondo …
un mondo fatto di “persone per bene”, un mondo dove i colpevoli hanno voce.
 Dove i colpevoli possono vivere liberi.”

Per celebrare questa giornata, i ragazzi del Liceo Statale Medi di Senigallia si sono recati presso il cinema il Gabbiano dove hanno avuto un incontro toccante con la professoressa Annarita Calavalle, che trentacinque anni fa ha subito l’aggressione violenta del fidanzato che le ha sparato alla mandibola. La sua grinta è motivo di esempio perché invece di piangersi addosso ha ricostruito la sua vita con audacia e senza odio nei confronti del suo aggressore. A seguire è stato proiettato il film “Io ci sono – La mia storia di non amore”, scritto da Lucia Annibali, un film che ricostruisce una rinascita dolorosa eppure essenziale che ha investito Lucia dopo che è stata vittima di un gesto tanto orribile quanto vigliacco. E’ un’immersione totale nel percorso straziante della Annibali, che all’inizio del film viene colpita dall’attacco con l’acido e poi in una serie di flashback ci viene mostrata mentre continua il suo percorso verso la guarigione parallelamente al racconto della storia d’amore passata con Luca Varani.

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Un viaggio nella violenza, nell’orrore, che provoca sdegno, rabbia, una sofferenza intensa ma che in qualche modo non si abbandona mai al moto della pietà.  Io ci sono rende omaggio alla forza personale della Annibali, ricostruendone con chiarezza il coraggio, l’ironia e la capacità di piegarsi senza spezzarsi fino a diventare testimone importante del profondo senso di abominio che la violenza sulle donne provoca o dovrebbe in tutti i casi provocare e di come si possa rispondere anche al crimine più efferato tornando piano piano a vivere.

Consuelo Centurelli (3BLi)

 

Pubblicato in: Cittadinanza attiva, Cultura di pace

TUTTE LE DECLINAZIONI DEL BIANCO E DEL NERO

 NON TUTTI I MIGRANTI SONO UGUALI E MOVIMENTO E ADATTABILITA’ SONO DUE CARATTERI DISTINTIVI DELLA SPECIE HOMO

Il movimento di gruppi di individui da una zona all’altra del mondo è certamente un dato di fatto, sotto gli occhi di tutti. Ed è per questo che, soprattutto oggi, anche il nostro Paese, ha assunto un volto multietnico. Eppure, benché sia finito il tempo della schiavitù e della segregazione razziale in Italia (repubblica democratica) non si può certo affermare che il razzismo scomparso del tutto. Qui gli stranieri vengono ancora visti come “possibili criminali” e “parassiti sociali”.

 

Gian AntoOrda.jpgnio Stella, storica firma del Corriere della Sera, nel  libro “L’orda, quando gli Albanesi eravamo noi” scrive: “Non è così. Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o pochi anni fa, a noi. Loro sono clandestini?  Lo siamo stati anche noi”.

A questo punto sorge spontanea la domanda: questo trattamento riguarda tutti gli immigrati o solo i clandestini? Bisogna chiarire cosa significa essere “immigrato regolare” e  “immigrato irregolare”. I primi sono persone che entrano in un paese “straniero” dopo aver ottenuto il visto e con i documenti in regola. I secondi, i “clandestini” non hanno né visto né documenti. Vi è anche una sottocategoria di irregolari, che, secondo  parlarecivile.it, portale italiano sul diritto civico e politico, è la più diffusa e, di conseguenza, la più discriminata: gli overstayers. Sono coloro che, entrati regolarmente,  alla scadenza del  visto temporaneo, decidono di non tornare nel paese di provenienza. Persone che gli italiani giudicano male, perché, all’apparenza, “hanno avuto la mano e, adesso, vogliono tutto il braccio”. E’ giusto questo modo di pensare e di vedere le cose? Secondo Fabrice Dubosc, terapeuta interculturale e psicologo analista,  “la proliferazione dei conflitti e la crisi dello sviluppo hanno moltiplicato il numero dei rifugiati, determinando un’area grigia per quanto riguarda la differenza tra migrazione economica e asilo politico. Di fatto, chi oggi chiede asilo assomiglia ben poco a un dissidente sovietico degli anni della guerra fredda”. Proprio così, si è costituita un’area grigia: non è civile odiare una persona che, dopo aver vissuto mesi nel nostro Paese, abbia qualche remora a tornare in una situazione di conflitto e di violenza, aggravata da problemi economici. A parlare di “overstayers” è anche Alessandro Masala, youtuber italiano, direttore del canale di informazione “Breaking Italy”, a detta del quale  la quasi totalità degli Overstayers non rimane in Italia per paura della guerra, tantomeno per motivi economici.

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Per la famiglia. Esatto, la famiglia, la cosa più importante che ognuno di noi ha. Solitamente il viaggio che consente ai migranti di approdare in Italia, la sponda dell’Europa, lungo, travagliato e molto costoso. Gli “overstayers” sono semplicemente “uomini di famiglia”, arrivati da soli per lavorare e finanziare i viaggi dei familiari. Tornare indietro, mentre la cosa a cui tieni più al mondo è in viaggio per il paese, che ti impongono di lasciare, non piacerebbe a nessuno.

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La scienza moderna è basata anche sulle scoperte di Charles Darwin, il quale nella Origine delle specie scrisse: “Vi è una parola chiave per descrivere il comportamento degli esseri viventi, tale parole è adattabilità”. Il trasferirsi non è, dunque, un voler dare fastidio a qualcun altro oppure, come scrisse Alfred Tennyson in Ulyxes, la voglia di nuovo e di sperimentazione alimentata dalla curiosità: è mera sopravvivenza; è adattarsi a periodi tristi della storia del globo. Quindi, il bianco, che colore è? Per quanto mi riguarda è come tutti gli altri, certo, differisce in alcuni aspetti rispetto agli altri colori di una tavolozza immensa, ma ha una cosa in comune a tutti, dipende dalla luce. Il bianco, sotto determinata luce, può sembrare rosso, grigio o marrone. Alan Garant, professor universitario, un giorno disse: “Esistono solo due tipi di persone: gli astronomi e gli astronauti. Entrambi vogliono la stessa cosa: i primi si godono lo spettacolo dalla Terra, i secondi hanno la necessità e il coraggio di andare a prenderselo nello spazio”. Non è corretto, umano, avercela con gli astronauti solo perché noi a casa abbiamo un telescopio.

Mattia Russo (classe 4B SA)